In viaggio per Berlino

L’ultimo giorno eravamo ancora al Sony Center; per la terza volta chiamati dai tanti riflessi di specchio, riverberi di luci, lembi di cielo visti attraverso gli spicchi della grande cupola decentrata che copre la piazza.
Un senso di velocità dato dagli ascensori trasparenti sulle pareti  di vetro, un senso di spettacolo dato dal grande schermo con proiezioni continue, dalla vasca d’acqua in parte sporgente sul sottostante museo del cinema, dai tanti bar, caffè, ci faceva sentire maggiormente il battito febbrile e pulsante della nuova Berlino, che vuole farsi e si dichiara capitale.
In particolare un caffè attirava l’attenzione, a prima vista una scatola di vetro, un involucro discreto da cui appaiono, avvicinandosi, bianchi stucchi in alto, specchi con cornici lavorate e dorate. Entrando ci si trova nella Kaisersaal o sala dell’imperatore, piccolo frammento dell’Hotel Esplanade, che ricorda con il lusso degli addobbi lo splendore di un’epoca, la vivacità di uno dei luoghi di divertimento più trafficato  d’Europa negli anni 20, Postdamer Plaz: famoso crocevia, che la guerra, e gli eventi connessi, hanno distrutto ad eccezione appunto della sala.
Considerata rovina protetta, è stata tagliata e poi spostata, grazie a  un complesso impianto idraulico, di settantacinque metri; messa in vetrina, esposta come un oggetto di lusso, quasi un antico diadema, ammicca alla grandezza passata, riannoda il filo spezzato riproponendo un nuovo splendore, quello moderno del Sony Center.
La cui grande cupola, composta di strisce, quasi teli da circo sulla piazza del complesso, da bianca di giorno, la sera cambia colore; sotto l’effetto delle luci e dei tramonti, diventa cangiante, mutevole.
Così Berlino, città dai tanti volti,  tesa nello sforzo di curare le proprie ferite, di rammagliarle nell’animo collettivo e nei quartieri, espone se stessa in simboli nuovi e antichi.
L’operazione di restauro e d’organizzazione del Reichstag è in questa chiave di lettura; nel 1995 il Parlamento, in contrasto con il progetto originario di N. Foster, decide di riedificare la cupola, anche se in dimensioni ridotte. 
La trasparenza del vetro non solo la rende un luogo panoramico da cui si ammira la città, ma allude anche ad una visibilità dell’operato  della democrazia, così minacciata e distrutta nel 1933 da Hitler con il famoso rogo che coinvolse gran parte dell’edificio.
La  percorribilità, con una doppia rampa, permette scorci vari sulla riunificazione e sul nuovo assetto della città: la vecchia porta di Brandeburgo liberata dal muro, la nuova porta costituita dalle tre torri di Posdamer Plaz,  l’isola dei musei, i nuovi quartieri sulle sponde dello Spree e limitrofi al Tiergarten.
Operazione di riaffermare se stessa, in un intento liberatorio verso il passato, chiaro già nel 1991 quando si decise di trasferire la capitale a Berlino utilizzando la sede del Reichstag. E cosa era questo palazzo se non la espressione della potenza del Reich tedesco rifondato dopo la sua proclamazione a Versailles nel 1871, e cos’è anche adesso per la Germania che si solleva dalle ceneri dell’olocausto con la trasparenza del vetro da una parte, e con la barriera luccicante del metallo dall’altra. 
Parlo dello zinco del museo ebraico. Libeskind architetto.
Profondi e lunghi tagli percorrono l’edificio, lacerazioni ancora più espresse in pianta, dove la stella di David è spezzata, stirata, distorta in saetta.

La costruzione ha volutamente un percorso labirintico e simbolico. 
Nella parte sotterranea è chiaramente espresso nelle tre “vie del destino”, assi distributivi che ricordano la storia degli ebrei a Berlino e che conducono alla torre dell’olocausto, al giardino dell’esilio, alla convivenza giudaico-tedesca. Nelle altre parti, il simbolo è più allusivo a ciò che non può essere colmato, i vuoti. 
Li si incontra durante il percorso, sono spazi che si sviluppano su più piani, su cui ci si può affacciare da alte finestre. Sono pause spettrali che impongono il raccoglimento, il silenzio.
Ma a tratti irrompe il suono, freddo, di metallo.
La splendida, intensa, agghiacciante distesa di piccole facce di ferro, che battono l’una sull’altra; la bocca sbarrata in un urlo che il proprio passo, di visitatore che diventa testimone, esprime.
Berlino, luce e ombra, spettacolo e sobrietà, rigore nel tenere i capi del filo del passato e del futuro, dei tratti che distinguono una personalità e che si traducono in riti, in simboli.
E ritorno alla cupola del Reichstag che porta all’interno, come elemento strutturale e simbolico, un cono rovesciato, rivestito di specchi, su cui le immagini della città si riflettono, si rompono, o si moltiplicano in un solo particolare, ossessivamente ripetuto. La bandiera, un uccello sul fiume, la mongolfiera che si leva in Posdamer plaz, l’aquila imperiale sulla porta di Brandeburgo, la stessa che si trova all’apice del cono, sospesa sulla grande aula parlamentare.
La porta di Brandeburgo è un altro dei luoghi molto coinvolti dalla trasformazione subita dalla città dopo la grande guerra, uno dei punti più drammatici della divisione del 1961; ripresa, dipinta sul muro, in un paesaggio che ancora oggi ci mostra come fosse diventato spettrale e grigio, con un’unica nota vivace, il rosso delle bandiere dell’armata; più in là l’asse prospettico del famoso Unter der Linden, privato dei suoi tigli dai nazisti per meglio permettere le sfilate.
Oggi la porta chiude otticamente ancor più questo asse, filtra il verde del Tiergarten, e costituisce la quinta importante della Parisien Plaz, pausa quasi salottiera nel passaggio sull’altro asse, quello all’interno del Tiergarten.
Centro mondano di Berlino prima della guerra,  è stata riedificata mantenendo le antiche proporzioni, le destinazioni d’uso e una certa percentuale di superficie vetrata, così da risultare accentuata e valorizzata la proporzione tra pieni e vuoti della porta. 
Gehry traduce la normativa nella DG-Bank con una facciata molto rigorosa, con forti setti murari intervallati da finestre balconate, ma, con una mossa da giocoliere, inclina la superficie del vetro in uno degli ultimi piani e, in parte in basso. 
Così che la grande porta che si specchia appare anche essa inclinata, fuori asse, quasi un divertimento, o una irriverenza giocosa rispetto all’iconografia classica che ancora oggi si vuole dare del simbolo per eccellenza di Berlino.
All’interno della banca, l’atrio ha una scansione ugualmente severa e elegante con le sue pareti in legno rosato, con la copertura reticolare che copre la sala delle conferenze. Oggetto scultoreo, rivestito di metallo, sembra sospeso con la sua enigmaticità, il suo richiamo a forme antiche e zoomorfe.
Un fuori razionale e normativo, un dentro onirico e fantasmatico; come nella sala dell’imperatore all’interno del Sony, una gemma di diversa fattura racchiusa ancora in una scatola.
Immagini che associano canzoni, parole che si sono dette sulla poliedricità e il divenire di questa città; ci si ricorda dello sguardo dell’angelo di Wim Wenders, raccolto sui pensieri della gente con com-passione, sia nella profondità dei tunnel metropolitani, sia dall’altezza della statua della Vittoria alata, e ci si affianca al regista nel suo dire oggi: “…Berlino è un’astronave perduta in un sistema solare sconosciuto dove tutto è possibile, più possibile che altrove .”

Arch. Teresa Mariniello