Budapest

A tornare da Budapest, a ripensare ai suoi selciati, ai disordini di certi snodi, all’eleganza dei numerosi bagni termali, ti senti invadere da una certa malinconia, come se la città avesse voluto e sognato per se stessa un racconto diverso, e inciampata nella Storia, si stesse riassestando ora, raccogliendo le sue parti, stringendo e insieme allargando i suoi anelli.
Qua e là si sentono le differenze, che la natura del luogo, e gli sviluppi in epoche diverse, hanno favorito; la prima è nel colore: grigio, beige, marroncino, ancora grigio, stentato, sui muri delle case, dei villini nei quartieri che furono del socialismo reale; giallo paglierino, ocra carico, azzurro nel centro storico, in quella parte della città che veniva definita, nei primi del “900”, la Parigi dell’Est. E senza dubbio allora il paragone era calzante perché, come nelle altre grandi capitali europee, Budapest apriva cantieri per ardite costruzioni in ferro dalle grandi coperture e luci, si lanciava in ciò che sarebbe stato il futuro impianto urbanistico di tante città : assi di penetrazioni necessari per i trasporti veloci, che sfociavano in grossi poli come piazze o centri rappresentativi, spesso in stile internazionale.
L’altra differenza è fra Buda e Pest. La prima, su uno sperone di roccia alto 60 metri e detto Vàrhegy, o la collina del castello, è circondata dalle mura dell’antica fortezza; con un tessuto minuto, tipicamente medioevale, si dipana intorno alla Città vecchia e intorno a Palazzo reale, domina il Danubio, fronteggia il brulicare della moderna Pest sulla riva opposta.

La seconda, appunto Pest, nella parte vicina al Parlamento, o all’Operà, o alla stazione Nyugati, o ancora alla basilica di S. Stefano, ha un tessuto a scacchiera attraversato dall’asse Andrassy che chiude in testata col grande parco Varosliget, luogo di attrattive e divertimenti. Lungo le grandi vie la circolazione ha uno scorrimento veloce, soprattutto automobilistico, ma basta svoltare un angolo perché diventi più lenta, tranquilla; si sente, insieme al rumore dei propri passi, un senso di appartenenza, una pacatezza data dal riconoscere gli spazi per ciò che sono e un ritrovare se stessi in una buona dimensione urbana.
Intendo questa come quella caratteristica che ci consente di muoverci con agio e sicurezza anche negli spazi costruiti su larga scala, intervallati da piazze che favoriscono gli incontri e gli scambi, con fontane o con testimonianze della memoria collettiva del luogo, segnati da poli ottici con esedre o statue o anche parchi con padiglioni, e infine dalle porte, che nel caso di Budapest leggo nei ponti. Quello delle catene, in particolare, porta sulle due testate opposte statue di leoni, simbolo esplicito di difesa e di guardia.
Le due città si guardano attraverso il Danubio, fronteggiandosi mediante la manifestazione più tangibile del proprio periodo di potenza e splendore: la fortezza, diventata poi Palazzo reale, e il Parlamento; ma anche si incontrano, si confondono grazie alle tante fonti di acqua calda che sgorgano dal suolo e confluiscono nelle numerose terme disseminate dovunque, e usate non tanto per curarsi i malanni, quanto per iniziare bene la giornata, con una partita a scacchi e due chiacchiere tra amici.
Attraversando Budapest in tram e metrò e tanto a piedi, guardando e osservando, ascoltando le risonanze interiori, è possibile cogliere il particolare, lavorarci con foto o schizzi per meglio cogliere i segni, che nel tempo si depositano sui luoghi, sino a che questi acquisiscono una valenza simbolica forte. Perché come Italo Calvino ha scritto:
“ …la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale…”

Arch. Teresa Mariniello